Intervista a Rossella Miccio: “Le stragi di migranti non sono cataclismi, sono eccidi”

La presidente di Emergency
«Per chi tenta di attraversarli non ci sono vie legali, modalità per arrivare in Europa che siano rispettose dei diritti umani. Quelle dei migranti sono stragi, non cataclismi. E le stragi hanno dei responsabili, il più delle volte impuniti»
È l’incipit di cui non faremo mai a meno: c’è chi disserta su guerre, tragedie umanitarie, comodamente seduto in uno studio televisivo, mettendo i voti, dando patenti di affidabilità e cartellini rossi, e chi le guerre, le tragedie umanitarie le vive sul campo, cercando di salvare, ogni giorno, centinaia di vite umane. È il caso di Emergency, di cui Rossella Miccio è la Presidente nazionale. L’Ong fondata da Gino e Teresa Strada ha vissuto tutti i conflitti che hanno segnato gli ultimi quarant’anni. Sempre dalla parte delle tante e tanti che pagano. Come i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania. Come i migranti che continuano a morire nel Mediterraneo o nel deserto.
Mediterraneo, il “mare della morte”. Un’altra strage di migranti a largo di Lampedusa. 33 morti, tra cui una neonata. Una tragedia infinita. Dieci anni fa si era detto “mai più”. E invece continuiamo a vedere quotidianamente persone morire. Non c’è niente di “naturale” in tutto questo. Sono stragi, non cataclismi. E le stragi hanno responsabili, il più delle volte impuniti. La scorsa settimana Life Support, la nave di Emergency, ha evitato il rischio che si aggiungessero altri morti ai tantissimi che piangiamo. Abbiamo avuto il terzo dei tre soccorsi in condizioni davvero difficili, con persone cadute in mare. Abbiamo addirittura dovuto chiedere l’evacuazione sanitaria in elicottero per una persona che aveva perso conoscenza e stava annegando. La situazione è drammatica, non se ne può più.
Eppure, le politiche securitarie continuano a imperversare. In Italia e in Europa. Non si fa altro che parlare di sicurezza dei confini. Sicurezza per chi? Non certo per le persone che provano ad attraversarli. Per loro non esiste sicurezza. Non esistono vie legali, non ci sono modalità per arrivare in Europa che siano rispettose dei diritti umani, dei diritti che noi, come italiani e come europei, abbiamo posto alla base della nostra società. Ci si chiede cosa sia diventata questa “sicurezza” in Europa.
E qual è la risposta di Emergency? “Sicurezza” è diventata semplicemente la militarizzazione delle frontiere, che passa sopra ai diritti fondamentali delle persone.
Tutto questo avviene mentre in Italia è riesploso il caso Almasri. Dal punto di vista di Emergency, che conosce profondamente la realtà libica, che cosa racconta questa storia? La Libia la conosciamo bene. Ci abbiamo lavorato anche durante il conflitto. La realtà libica è ben nota a noi, ma credo che sia ben nota a tutti, a partire dai nostri rappresentanti politici, italiani ed europei. Nessuno chiede di abbandonare la Libia al suo destino. Anzi, è fondamentale stare vicino alla popolazione libica e aiutarla a ricostruire uno Stato che ad oggi non c’è. Quello che chiediamo, però, è che questo aiuto non prescinda dal rispetto dei diritti umani, degli stranieri che arrivano in Libia come anche dei libici stessi, e che qualsiasi attività di cooperazione con le autorità libiche parta dal rispetto dei diritti della persona, dopodiché si può ragionare di qualsiasi cosa. Quello che noi vediamo nella realtà è tutt’altro. Oltre a fornire supporto tecnico, logistico a nuove motovedette della guardia costiera libica, non si presta alcuna attenzione a come questi mezzi vengono utilizzati, si chiudono gli occhi di fronte alle torture, agli abusi, alle violenze che quotidianamente avvengono in Libia. Questa si chiama complicità con gli aguzzini, con i tanti Almasri che imperversano in Libia. Nessuno può dire di non sapere. Questi comportamenti criminali sono stati oggetto di attenzione della Corte penale internazionale, come testimonia il caso Almasri.
Le cose non migliorano se dalla Libia ci si sposta in Tunisia. Assolutamente. Da almeno tre anni, la Tunisia ha imboccato una strada molto pericolosa da questo punto di vista: gli stranieri sono diventati il capro espiatorio del fallimento delle politiche nazionali. Noi abbiamo soccorso persone che ci hanno raccontato storie davvero sconvolgenti, che vivevano lì in Tunisia da decenni, che avevano avuto lì i loro figli, che lavoravano lì, e che all’improvviso hanno perso il lavoro, sono stati cacciati di casa, sono stati deportati a forza nel deserto a lasciarsi morire di fame e di sete, e l’unica opzione che avevano era mettersi in mano ai trafficanti di esseri umani per provare a raggiungere una vita dignitosa da noi. Tutte queste cose, atroci, come le sappiamo noi le sanno anche i nostri politici, le nostre istituzioni. Dovrebbero far qualcosa ma così, purtroppo, non è.
Da una tragedia, quella del Mediterraneo, ad un’altra non meno drammatica: quella di Gaza. Un altro fronte su cui Emergency è da tempo impegnata. Un fronte che ci lascia senza parole. Non ce ne sono più per descrivere quello che vediamo, quello che succede, quello che proviamo a Gaza. Tra noi, i nostri colleghi palestinesi, i pazienti che arrivano alle nostre cliniche, il commento più comune che c’è è: ma quanti morti ancora devono esserci perché qualcuno sia in grado, voglia fermare Israele? Questo ci sconforta, ma andiamo avanti perché è fondamentale comunque esserci, con tutti i limiti della situazione, a fianco della popolazione palestinese.
Cosa si prova quando un medico, un operatore sanitario di Emergency, si trova davanti a bambini ridotti a scheletri umani? Tanta rabbia. C’è la rabbia, c’è la frustrazione per non riuscire a fare delle cose basilari, come fornire il cibo a persone, bambini, che sono estremamente vulnerabili. È tutto il contesto di Gaza che è disumanizzante, in maniera totale. La gente è costretta a cercare di sopravvivere in situazioni, in contesti sempre più degradanti e umilianti. Gli operatori che in questo momento sono a Gaza sono persone che hanno avuto tante esperienze in molti conflitti. Ma il livello di disumanità che stanno sperimentando a Gaza credo sia unico. Da questo punto di vista, vorremmo che ci fosse molta più consapevolezza, soprattutto da parte di chi ha la possibilità di premere su Israele, come i governi europei, per fare ciò che si continua a non voler fare.
Nel non fare ci si rende complici di questa mattanza… Oggi nessuno può dire “non sapevo”. Quello che sta succedendo nella Striscia di Gaza, nonostante i divieti di ingresso per i giornalisti internazionali, è da tempo sotto gli occhi di tutti. Ci sono cittadini, uomini e donne di cultura, di scienza, israeliani che cercano di scuotere le coscienze dei loro concittadini e del loro governo. Quanti non agiscono per porre fine a ciò che sta accadendo a Gaza, al massacro indiscriminato di donne, uomini, bambini, si stanno rendendo complici di questi crimini contro l’umanità. Proprio per questo noi, come Emergency, abbiamo da sempre fatto appello alle nostre istituzioni affinché s’impegnino, anche banalmente a rispettare le leggi italiane. Abbiamo una legge che ci impone di interrompere il commercio di armi con Paesi in guerra o in cui si violano i diritti umani. Penso che nessuno possa negare che Israele è un Paese in guerra. Quindi, noi dovremmo smettere di vendere armi a Israele e, invece, siamo il terzo partner militare dello Stato d’Israele. Di cose da fare ce ne sono tante, quello che manca è la volontà di realizzarle.
Quando Emergency, con Gino Strada, operava in Afghanistan, c’era chi vi tacciava di essere filotalebani. Quando salvate vite umane nel Mediterraneo, si dice e scrive che siete in combutta con scafisti e trafficanti. E a Gaza, di essere filo-Hamas. Se è per questo, ci hanno detto che eravamo filo putiniani perché chiedevamo pace per l’Ucraina. Ormai le abbiamo davvero sentite tutte. Mercoledì scorso, 13 agosto, è ricorso il quarto anniversario della morte di Gino. La mancanza di quella sua voce così determinata, chiara, fuori dagli schemi, si sente tanto. Nonostante siano anni che ci riversano addosso accuse infamanti, noi di Emergency e, più in generale, il mondo delle Ong andiamo avanti, l’unica risposta che abbiamo è quella delle nostre azioni. Noi parliamo perché siamo testimoni in prima persona di quello che succede in questi Paesi martoriati. La nostra responsabilità è, da un lato, curare tutti, bene e gratis diciamo noi, perché quello alla cura è un diritto fondamentale, diritti che sono stati costruiti sulle macerie delle due Guerre mondiali, e che quindi hanno un valore fondamentale per noi. Da un lato curiamo e dall’altro sentiamo sempre più il bisogno di raccontare quello che vediamo e di chiedere conto a chi può decidere di fare una scelta diversa da quella della guerra. Una scelta ora più che mai fondamentale. Noi siamo solo filo-persone che sono in stato di bisogno.
Testimoni scomodi e per questo nel mirino, non metaforico, di chi, come a Gaza, non vorrebbe avere occhi e voci che denuncino quelle atrocità. Dall’essere semplicemente degli operatori umanitari siamo passati all’essere considerati, sempre più spesso, dei testimoni scomodi. I modi per limitare la nostra azione sono moltissimi. Ci sono quelli più evidenti, più violenti, con le armi, ma ci sono anche quelli più subdoli della burocrazia, dei fermi amministrativi per le navi, dei ritardi nelle concessioni dei visti, dei blocchi delle provviste sanitarie, ad esempio alla frontiera tra Israele ed Egitto. Sono tanti i modi con cui si cerca di tenerci in disparte. Nonostante questo, c’è tantissima gente perbene che ancora crede che sia fondamentale non chiudersi nel proprio orticello e invece fare il più possibile per aiutare chi ne ha più bisogno. Anche nel rispetto di queste tante e tanti, in Italia e nel mondo, siamo ben determinati ad andare avanti e a non arrenderci.
Emergency la propria parte la fa. E la politica e i suoi rappresentanti? Fanno molto meno di quello che potrebbero e dovrebbero fare. Di fronte alle tantissime crisi che ci sono a livello mondiale, la prima credo sia quella valoriale. In Italia, in Europa, negli Stati Uniti. Quella che si considerava la prima democrazia al mondo, ormai è una plutocrazia, se hai i soldi puoi parlare, hai dei diritti, altrimenti non sei nessuno. Questo è ciò che ci preoccupa di più, perché se la politica non è più espressione di questi valori condivisi, soprattutto quelli che hanno a cuore la tutela dei più fragili, allora la politica non è finalizzata al bene comune, ma è uno strumento per gli interessi di pochi. Strumento di protezione di privilegi invece che di promozione di diritti. Per questo noi non smetteremo di chiedere conto alla politica delle proprie scelte.
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